Violenza assistita: un solo episodio non basta

La Cassazione chiarisce i presupposti dell’aggravante: servono episodi ricorrenti e significativi, non basta la presenza del minore in un singolo momento di tensione.

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Nel diritto penale familiare, ci sono casi in cui il silenzio vale più di mille parole. E spesso quel silenzio ha gli occhi spalancati di un bambino che assiste, senza capire fino in fondo, ma sentendo tutto. In questi scenari, la legge parla di “violenza assistita”, e la punisce come una forma aggravata del reato di maltrattamenti in famiglia.

Ma quando si può dire che un minore ha davvero subito questa violenza, pur non essendo la vittima diretta? È sufficiente che abbia assistito una sola volta a un’aggressione tra i genitori, o serve qualcosa di più?

Con la sentenza n. 17857 del 12 maggio 2025, la Corte di Cassazione, Sez. VI°, ha messo un punto fermo su una questione che, nei processi, torna spesso a fare la differenza tra un’imputazione semplice e un reato aggravato. E la risposta, come sempre, non è banale: no, non basta un solo episodio.

Secondo la Suprema Corte, per parlare realmente di violenza assistita – e quindi per applicare l’aggravante prevista dall’art. 572, secondo comma, del codice penale – bisogna valutare se gli episodi di cui il minore è stato spettatore abbiano una frequenza, una qualità e un impatto tali da lasciare temere per il suo sviluppo psico-fisico. In altre parole, non è una questione matematica, ma nemmeno una sensazione vaga: serve una base concreta per ritenere che quel bambino, esposto a determinate situazioni, sia stato davvero “segnato” da ciò che ha visto o vissuto.

Nel caso analizzato, la difesa ha cercato di escludere l’aggravante della violenza assistita sostenendo che la figlia dell’imputato avesse assistito solo a pochi episodi e che non ci fosse alcuna perizia a dimostrare un danno psicologico.
La Cassazione ha respinto questa linea difensiva, affermando che non serve una perizia per dimostrare il danno al minore: ciò che conta è che il bambino sia stato esposto più volte a situazioni violente – fisiche o verbali – tali da far ragionevolmente temere un effetto negativo sul suo equilibrio e sviluppo.

La Corte ha chiarito che un episodio isolato non basta a far scattare l’aggravante: serve una ripetizione di comportamenti gravi, valutati nel loro insieme.
Inoltre, ha precisato che la fine della convivenza non fa venir meno automaticamente il reato di maltrattamenti. Se il legame affettivo tra i due adulti continua, anche a distanza o in modo saltuario, le condotte violente possono ancora essere inquadrate nell’art. 572 del codice penale, e non necessariamente come stalking.

In definitiva, la sentenza rafforza l’orientamento per cui la violenza assistita richiede concretezza e continuità, non impressioni isolate. Quando la sofferenza è abituale, reiterata e vissuta nel quotidiano, il diritto penale ha il dovere di riconoscerla e sanzionarla.

Avv. Lorenzo Sozio