La spiaggia è, per sua natura giuridica, un bene demaniale marittimo ai sensi dell’articolo 822 del Codice Civile: appartiene allo Stato e, attraverso lo Stato, a tutta la collettività. È destinata all’uso pubblico e collettivo. Questo carattere pubblico non viene meno nemmeno quando la spiaggia è data in concessione a un privato per la gestione di uno stabilimento balneare. La concessione, infatti, attribuisce al concessionario un diritto di gestione, ma non gli conferisce un potere assoluto sul bene, né trasforma la spiaggia in un luogo privato. L’accesso per raggiungere la battigia deve sempre essere garantito a chiunque, senza ostacoli fisici o giuridici, come stabilito anche dall’articolo 1, comma 251, della legge 296/2006 e ribadito da una consolidata giurisprudenza.
Nonostante questo quadro normativo chiaro, è sempre più diffusa la pratica, da parte dei concessionari, di gestire la spiaggia come se fosse un club privato o una discoteca all’aperto. L’ingresso viene subordinato a criteri non ufficialmente dichiarati ma concretamente applicati: si selezionano i clienti in base all’abbigliamento, all’aspetto estetico, allo status sociale percepito. Spesso l’accesso viene negato con pretesti quali eventi privati, prenotazioni inesistenti, regolamenti interni che vietano di portare cibo dall’esterno o impongono obblighi di consumazione. Si assiste così a una privatizzazione di fatto di un bene pubblico, mediante pratiche selettive che non hanno alcuna base legale.
Dal punto di vista giuridico, è importante chiarire che il concessionario di una spiaggia non acquisisce la proprietà del bene, ma soltanto un diritto a gestirlo per le finalità previste dal titolo concessorio e secondo le regole di diritto pubblico. Lo ha affermato in modo esplicito il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 4044 del 30 luglio 2013, stabilendo che il concessionario di beni demaniali non può imporre regole che limitino l’accesso o l’uso del bene per finalità puramente economiche o estetiche. Ciò significa che nessun gestore può subordinare l’accesso alla fruizione obbligatoria di servizi aggiuntivi, né può legittimamente escludere un soggetto solo perché non corrisponde a un certo “profilo” estetico o sociale. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16911 del 12 maggio 2006, ha a sua volta ribadito che l’accesso alla battigia e al mare deve essere garantito in modo libero e non discriminatorio, indipendentemente dalla presenza di concessioni.
In presenza di violazioni di questi principi, la legge attribuisce poteri di controllo e intervento a diverse autorità pubbliche, tra cui spicca in primo piano la Capitaneria di Porto. Ai sensi dell’articolo 30 del Codice della Navigazione e dell’articolo 68 del relativo regolamento di esecuzione, la Capitaneria esercita la vigilanza diretta sull’uso del demanio marittimo. Ha la competenza per accertare violazioni delle prescrizioni contenute nel titolo concessorio, per contestare illeciti amministrativi ai sensi dell’articolo 1161 del Codice della Navigazione e per adottare provvedimenti immediati di sanzione. Inoltre, la Capitaneria può segnalare all’autorità concedente e al Ministero delle Infrastrutture eventuali irregolarità gravi che giustifichino la revoca o la decadenza della concessione. È dunque un presidio essenziale per la tutela della legalità e per il rispetto della funzione pubblica del bene, e può agire sia d’ufficio sia su impulso di segnalazioni da parte dei cittadini.
Accanto alla Capitaneria, anche il Comune e la Regione hanno competenze di vigilanza e potere sanzionatorio. Il Comune, in qualità di ente concedente o delegato, può sospendere o revocare la concessione qualora l’uso del bene risulti incompatibile con l’interesse pubblico o con le finalità della concessione stessa, come previsto dall’articolo 47 del Codice della Navigazione. La Regione, nell’ambito delle competenze attribuite in materia di demanio marittimo, può intervenire per garantire il rispetto dei piani di utilizzo delle aree demaniali e per sanzionare le violazioni. La revoca della concessione, benché discrezionale, deve essere adeguatamente motivata su esigenze di pubblico interesse, e può essere adottata anche in seguito a segnalazioni documentate dei cittadini.
La trasformazione delle spiagge in club esclusivi, con criteri di accesso assimilabili a quelli delle discoteche – selezione all’ingresso, obblighi di consumazione, eventi privati – costituisce non solo una distorsione della funzione pubblica del bene, ma anche una violazione dei principi di eguaglianza sostanziale sanciti dall’articolo 3 della Costituzione. Non si tratta solo di una questione commerciale o imprenditoriale: escludere l’accesso a un bene pubblico in base all’apparenza o allo status percepito è una lesione di un diritto fondamentale alla fruizione collettiva dello spazio pubblico.
Il cittadino che si trovi a subire un’esclusione arbitraria o una restrizione ingiustificata ha strumenti giuridici per tutelarsi. Può presentare un esposto alla Capitaneria di Porto territorialmente competente, segnalare l’abuso al Comune o alla Regione, documentare l’accaduto mediante fotografie, video e testimonianze, e chiedere formalmente l’intervento delle autorità per il ripristino dell’accesso pubblico. L’articolo 24 della Costituzione garantisce a tutti il diritto di azione in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, inclusi quelli relativi all’accesso ai beni pubblici.
In definitiva, la gestione di uno stabilimento balneare non legittima pratiche discriminatorie, selettive o restrittive dell’accesso alla spiaggia. La Capitaneria di Porto, insieme agli enti locali e regionali, ha il potere e il dovere di intervenire per tutelare la funzione pubblica del bene demaniale, garantendo l’accesso libero e non discriminatorio a chiunque. Difendere il diritto di accesso alla spiaggia significa difendere la natura pubblica di uno spazio collettivo, contro ogni tentativo di privatizzazione o esclusione sociale. Perché la spiaggia non è un club privato. È un diritto di tutti.
Avv. Lorenzo Sozio