Enti pubblici, non è peculato se manca il potere di spesa: il caso del tesoriere.

Non basta maneggiare denaro pubblico per integrare il peculato, serve il potere di deciderne la destinazione: per il tesoriere che falsifica i mandati di pagamento c'è la truffa aggravata.

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Quando si parla di reati contro la Pubblica Amministrazione, la linea di confine tra le varie fattispecie non è sempre immediata. Lo dimostra bene la recente sentenza della Corte di Cassazione (Sez. VI penale, n. 30184 del 3 settembre 2025), che ha riportato chiarezza su un tema delicato: la distinzione tra peculato e truffa aggravata ai danni dello Stato.

La vicenda prende le mosse da un caso concreto. Un dipendente di un istituto di credito, incaricato della tesoreria di alcuni Comuni, aveva manipolato i mandati di pagamento, sostituendo i beneficiari reali con nominativi compiacenti. In questo modo aveva dirottato denaro pubblico verso conti privati, occultando le operazioni attraverso il sistema informatico. La Corte d’appello aveva qualificato la condotta come peculato, con conseguente condanna.

La Cassazione ha invece ribaltato la prospettiva, richiamando un principio chiave. Nelle procedure di spesa pubblica occorre distinguere due momenti: quello deliberativo, in cui l’ente decide come impiegare le risorse e dispone il pagamento, e quello esecutivo, in cui il tesoriere provvede materialmente a versare le somme.

Solo l’ordinatore di spesa, che firma il mandato e ne stabilisce la destinazione, ha la disponibilità giuridica del denaro. Il tesoriere, per contro, dispone del denaro solo in senso materiale, senza alcun potere di scelta.

È qui che si colloca la distinzione.

  • Se a deviare le somme è l’ordinatore di spesa, si tratta di peculato.
  • Se invece è il tesoriere a impossessarsi dei fondi attraverso artifici e raggiri – come la falsificazione dei mandati o la sostituzione dei beneficiari – la fattispecie corretta è la truffa aggravata ai danni dello Stato

La pronuncia non si limita a un esercizio terminologico, ma segna un punto di diritto destinato ad avere impatto concreto. La Corte ricorda che il peculato non può essere dilatato fino a ricomprendere qualunque condotta di appropriazione di denaro pubblico: il tratto qualificante resta la disponibilità giuridica delle somme, cioè il potere di deciderne la destinazione.

Al contrario, quando quel potere manca e l’appropriazione avviene soltanto attraverso artifici e raggiri, la fattispecie corretta è la truffa aggravata ai danni dello Stato. Non è una sfumatura, ma un discrimine che tocca i principi di legalità e di proporzione della pena: due reati diversi, due beni giuridici tutelati in modo distinto, due logiche punitive non sovrapponibili.

La sentenza, in questo senso, rappresenta un riferimento importante non solo per gli operatori, ma anche per l’interpretazione futura dei reati contro la Pubblica Amministrazione, riportando il dibattito sui binari di una corretta delimitazione dei confini del peculato.

Avv. Lorenzo Sozio