La recente sentenza della Corte di cassazione, Sez. III penale, n. 37783/2025, offre l’occasione per tornare su un tema di grande rilievo sistematico: la posizione del Pubblico Ministero nel processo penale.
Un tema che la giurisprudenza affronta da decenni, ma che in questa decisione riemerge con una nettezza che merita attenzione.
La Corte, analizzando l’eccezione di tardività relativa alla trasmissione degli atti da parte della Procura, compie un passaggio di portata non solo pratica ma teorica: il PM, ai fini degli oneri di deposito e delle decadenze processuali, è parte al pari della difesa.
Una affermazione apparentemente ovvia, ma che – proprio perché spesso offuscata da prassi “elastiche” o interpretazioni indulgenti verso l’organo requirente – assume una valenza sistematica di particolare rilievo.
Il cuore della decisione sta nella rigida interpretazione dell’art. 172, comma 6, c.p.p., norma che individua nel momento di chiusura al pubblico dell’ufficio giudiziario il limite ultimo per il deposito degli atti.
La Corte osserva che tale disciplina: “si applica non solo alle parti private ma anche all’Ufficio del Pubblico Ministero” (Cass., Sez. VI, 12 gennaio 1995, n. 3966; richiamata nel provvedimento in oggetto).
La Cassazione ribadisce che l’art. 172 non fa alcuna distinzione di regime tra PM, difensore o parte privata. Pertanto, il PM non può avvalersi di una propria presunta “flessibilità” interna, né può beneficiare dell’operatività del personale amministrativo presente oltre l’orario di apertura al pubblico.
La norma, dice la Corte, è assoluta e uguale per tutti, perché incide su diritti e garanzie fondamentali, come nel caso di specie, dove era in gioco la libertà personale degli indagati.
Uno dei passaggi più significativi della sentenza riguarda il ruolo sistematico del PM. La Cassazione, richiamando arresti storici, sottolinea:“il vigente codice di rito ha introdotto una netta distinzione di ruoli tra giudice e pubblico ministero, equiparando quest’ultimo alle parti in genere”(Cass., Sez. VI, 12 gennaio 1995, n. 3966).
Si tratta di un principio cardine del processo accusatorio: il PM non è “l’ufficio”, non rappresenta il “braccio operativo del Tribunale”, ma è una parte processuale con interessi contrapposti rispetto alla difesa. Ne consegue che: il PM non ha accesso illimitato agli uffici giudiziari, non gode di privilegi nei termini, non può superare i limiti decadenziali invocando consuetudini d’ufficio o la disponibilità del personale amministrativo.
La Corte è categorica nel rifiutare ogni confusione tra orario di apertura al pubblico, orario interno di servizio degli impiegati giudiziari. Il PM cercava di valorizzare la presenza, oltre le 13:30, del personale della cancelleria.ma la Corte risponde che tale circostanza è irrilevante, perché:“l’adempimento processuale non attiene alla chiusura effettiva dell’Ufficio, ma coincide con l’orario di chiusura stabilito dai regolamenti” (Cass., Sez. VI, 12 gennaio 1995, n. 3966; Cass., Sez. III, 13 settembre 2018, n. 40777).
Il termine decorre e si consuma non quando l’ufficio chiude realmente, ma quando cessa l’orario in cui il pubblico può accedere. Questo vale per il privato, e – punto decisivo – anche per il Pubblico Ministero.
L’equiparazione dei termini tra PM e difesa non è un tecnicismo interpretativo: è l’espressione della parità delle parti, principio cardine introdotto dal codice del 1989. La Corte infatti richiama l’esigenza di evitare che prassi di “flessibilità” si trasformino in: corsie preferenziali per la pubblica accusa, asimmetrie incompatibili con il giusto processo, rischi di incertezza nella materia più delicata: i termini decadenziali.
Se la difesa è obbligata a rispettare rigidamente l’orario di deposito, non sarebbe tollerabile che il PM potesse “recuperare” carenze organizzative o ritardi attraverso: la cortesia del personale, consuetudini interne, elasticità orarie non previste dalla legge.
La Corte lo dice chiaramente:“l’interpretazione flessibile contrasta con la struttura stessa della norma e con la necessaria certezza dei termini processuali.”
In definitiva, la Cassazione manda un messaggio che non lascia margini di interpretazione: nel processo penale non esistono zone franche né scorciatoie istituzionali.
Il Pubblico Ministero non è un ufficio “di casa”, ma una parte come tutte le altre, vincolata ai termini e alle forme del rito.
a cura di Avv. Lorenzo Sozio
